Dimmi cosa mangi e ti dirò quanto inquini. Consumo alimentare e cultura della sostenibili-tà: un campo fondamentale sotto il profilo culturale e filosofico, una sfida per il longlife learning con lo scopo di guidare il nostro comportamento e indirizzare le scelte delle nostre società
La carenza d’acqua è uno dei maggiori drammi che l’umanità dovrà affrontare nei prossimi decenni. In particolare quella dolce, non è distribuita uniformemente e la crescita della popolazione mondiale rende l’umanità sempre più bisognosa di risorse idriche.
500 milioni di persone hanno scarso accesso all’acqua ed altri 2,4 miliardi vivono in paesi in cui il sistema idrico è a rischio, secondo l’UNESCO. La maggior parte dell’acqua viene utilizzata per l’agricoltura, specialmente nelle regioni più aride; in Europa e America del Nord ha un forte impatto anche il consumo industriale (ad esempio gli impianti di generazione elettrica).
La produzione di alimenti richiede ingenti quantitativi di acqua: ci vogliono più di 1.900 litri di acqua per far crescere un chilogrammo di riso e una tonnellata d’acqua per produrne uno di grano, ma è la produzione di carne che ne richiede il quantitativo maggiore data la quantità d’acqua necessaria per far crescere le piante di cui si alimentano gli animali, che va aggiunta a quella che bevono.
Il settore agricolo si trova di fronte ad una sfida complessa: produrre più cibo e di migliore qualità usando meno acqua per unità di prodotto; fornire alle popolazioni rurali risorse ed opportunità per vivere una vita sana e produttiva; impiegare tecnologie pulite per assicurare la sostenibilità ambientale e contribuire in modo produttivo all’economica locale e nazionale. Sarà necessario un cambiamento strutturale, culturale, tecnologico profondo, e investimenti mirati alla modernizzazione.
Effetti devastanti
Più in generale l’agricoltura può avere effetti devastanti sul territorio. L’agricoltura intensiva moderna rappresenta una minaccia per la biodiversità, perché sfrutta ed inquina le risorse naturali. L’agricoltura sta diventando un’attività sempre più di carattere industriale (è responsabile del 70% dell’inquinamento idrico negli Stati Uniti), è al primo posto per l’utilizzo massiccio di fertilizzanti chimici che, oltre ad inquinare le risorse idriche, sono la principale causa dell’eutrofizzazione dell’ambiente marino e costiero.
L’utilizzo dei fertilizzanti nel mondo industrializzato è cresciuto in modo significativo a partire dal 1960. In Europa e nei paesi sviluppati oggi il loro uso è in diminuzione, ma nei paesi in via di sviluppo il loro utilizzo è in espansione. I fosfati e i nitrati vengono dispersi nel terreno per facilitare la crescita dei prodotti agricoli, ma possono avere un effetto disastroso sui laghi d’acqua dolce, dove portano ad un’abbondante crescita di alghe, che necessitano di molto ossigeno e possono mettere a rischio la vita acquatica. In molti paesi è stato fatto un uso eccessivo di fertilizzanti, specialmente a base di azoto e questi hanno contaminato il suolo e inquinato l’acqua.
Promuovere l’agricoltura “conservativa” limita l’emissione di gas serra in due modi:
1. con le piante si crea una copertura extra del terreno che contribuisce all’assorbimento dell’anidride carbonica;
2. si riduce la necessità di prodotti azotati e quindi la liberazione nell’atmosfera di protossido d’azoto. Questa particolare tecnica, che non presenta lavorazione del substrato, consiste in una serie di pratiche agronomiche che permettono una migliore gestione del suolo, limitando gli effetti negativi sulla sua composizione, sulla struttura e sul contenuto di sostanza organica.
La filiera dell’inquinamento
Grave è l’impatto ambientale dei pesticidi. Quando l’acqua ricca di nitrati viene utilizzata per irrigare i campi, che vengono anche fertilizzati, la produzione può diminuire e può aumentare la vulnerabilità a parassiti e malattie; provocando un maggiore utilizzo di pesticidi, che sono costituiti essenzialmente da erbicidi, anticrittogamici e insetticidi, sostanze prodotte per controllare erbe infestanti, funghi e insetti che possono ridurre i rendimenti delle colture e danneggiarne la qualità.
Sostanze inquinanti derivano anche dalle industrie legate alla lavorazione dei prodotti a-gricoli. Le industrie alimentari sono responsabili di circa 45% degli inquinanti organici immessi in acqua da parte di tutti i settori industriali a scala mondiale (Clarke, King, 2008).
L’allevamento rappresenta un altro fattore di inquinamento importante ed incide significativamente sulle emissioni di metano globali. Quando mucche, pecore e capre digeriscono il cibo emettono metano. Si stima che circa 80 milioni di tonnellate di metano all’anno entrino nell’atmosfera a causa della digestione animale e si prevede che nel 2030 saranno 128 milioni di tonnellate (FAO, 2006, La zootecnia pone una grave minaccia sull’ambiente), che incrementeranno ulteriormente la quantità di gas serra presente nell’atmosfera.
La crescita dell’allevamento è, inoltre, una delle cause principali della distruzione delle foreste pluviali tropicali, specialmente in America latina.
L’Unione Europea ha preso alcuni utili provvedimenti come la riforma della politica agricola comunitaria che ha incentivato la tutela ambientale fornendo un quadro politico comune agli Stati membri. In molte nazioni vi è un notevole potenziale agricolo inutilizzato che potrebbe incentivare un’intensificazione dell’attività.
L’incidenza della dieta
Anche i cambiamenti delle diete alimentari hanno un impatto ambientale considerevole contribuendo a far crescere la richiesta di alimenti di origine animale, già alta nei paesi sviluppati, dove la quota media giornaliera di calorie derivanti da carne, pesce, latte e uova è del 30%-40% (Millstone, Lang, 2008).
La maggior parte della carne prodotta nei paesi industrializzati o di recente industrializzazione deriva da allevamenti di tipo intensivo. Nel secondo dopoguerra furono le stesse autorità nazionali ad incoraggiare questo tipo di allevamenti, considerandoli una risposta alla carenza di cibo e al bisogno di aumentare la produttività. Sebbene la produzione di carne possa essere vantaggiosa economicamente a breve termine, a lungo termine pone degli interrogativi dal punto di vista etico ed ambientale. Gli alimenti di origine animale provengono per grande parte dalla carne di pollo o di maiale, animali monogastrici che, a differenza dei ruminanti, non possono essere nutriti con erba o foraggio e che sono grandi consumatori di cereali o di semi oleosi. Dal momento che occorrono dai 2 ai 3 kg di cereali per produrre 1 kg di carne di pollo e dai 3,5 ai 4 kg per ottenere 1 kg di carne di maiale (Charvet, 2004), lo sviluppo degli allevamenti industriali di questi animali ha portato alla crescita della domanda di cereali, di farine o di pani ottenuti dalla macinatura di semi oleosi. Consumando la carne si consumano indirettamente cereali: è quello che si definisce “consumo indiretto di cereali”. Nei paesi con regimi alimentari caratterizzati da un largo consumo di prodotti di origine animale, gran parte del consumo totale di cereali è costituito dal consumo indiretto.
Nutrire gli animali per alimentare le persone è un modo costoso di produrre cibo, che mette in luce le contraddizioni presenti nell’alimentazione dei paesi ad alto reddito pro-capite.
Nonostante ciò gli allevamenti intensivi si stanno moltiplicando nel Sud-est asiatico e in America latina, in questo modo milioni di persone in più sfruttano in maniera insostenibile il territorio, generando sprechi di prodotti agricoli.
Inoltre, le unità di agricoltura industriale, sono altamente inquinanti ed utilizzano elevate quantità di energia. I liquami prodotti dagli animali negli stabilimenti inquinano i corsi d’acqua e sono anche responsabili dell’incremento dell’effetto serra.
L’allevamento industrializzato di animali poi influisce negativamente sulla povertà globale e sulla denutrizione; se si considera che per sfamare una persona che segue una dieta a base di frumento sono necessari 180 kg di grano all’anno, mentre per sfamarne una che segue una dieta caratterizzata da un elevato uso di alimenti di origine animale ne servono 930 kg (tenendo presente l’ingente consumo indiretto di cereali).
La minaccia dei cosiddetti “biocarburanti”
A questo discorso si associa quello relativo alla produzione di biocarburanti che utilizzano inopinatamente suolo utile per produrre alimenti. Si tratta di combustibili derivati dalla biomassa usati principalmente per i trasporti e per il riscaldamento. Il bioetanolo ed il biodiesel insieme costituiscono il 90% di biocombustibili, che producono l’effetto indotto di legare nei mercati borsistici il valere delle “benzine” a quelle degli alimenti.
Le colture dedicate alla produzione di biocarburanti, determinano:
a. sul piano ecologico, le colture maggiormente energetiche sono quelle che hanno anche più bisogno di acqua; i metodi di coltivazione sarebbero sicuramente intensivi e finalizzati alla massima produzione. Scomparirebbero elementi caratteristici del paesaggio rurale
tradizionale e con essi tutti i sistemi ecologici ecotonali associati e si avrebbe una drastica riduzione di biodiversità;
b. da un punto di vista economico e sociale significherebbe vanificare tutti gli sforzi fatti per avviare un’agricoltura tipica e di qualità.
Interrogativi dal punto di vista etico ed ambientale
Il rischio di alcuni biocarburanti, come la colza, le barbabietole e il girasole, deriva anche dal fatto che questi per crescere hanno bisogno di una grande quantità di acqua,concimi ed energia.
Bisogna valutare l’impatto del traffico: i flussi dei mezzi pesanti per il trasporto delle materie prime, la movimentazione navale e portuale.
In linea teorica, l’utilizzo di biomasse per la produzione di energia non contribuisce all’incremento dell’effetto serra. In effetti, se si considera il contributo di emissioni delle biomasse, in termini di CO2 equivalente, riferendosi solamente alle fasi di combustione, la CO2 emessa è pari esattamente a quella immagazzinata nel ciclo di vita della pianta.
Tuttavia, una corretta analisi del bilancio di CO2 deve tenere conto delle emissioni generati in tutte le fasi che portano alla produzione di energia. È corretto applicare, in questi casi, la Life Cycle Analysis (LCA), ovvero l’analisi sistematica che valuta i flussi di materia ed energia durante tutta la vita di un prodotto, attraverso una visione globale del sistema produttivo, che parte dall’estrazione delle materie prime fino allo smaltimento dei prodotti a fine vita.
Studi effettuati sull’LCA dell’energia elettrica prodotta a partire da biomasse mostrano come il bilancio finale della CO2 non sia nullo o quasi nullo.
Riflettere sul nostro presente
Il contributo netto di CO2 varia in base a determinati parametri quali le metodologie di coltivazione e raccolta della biomassa, la dislocazione degli approvvigionamenti, la tipologia di trasporto, ecc. Appare evidente che l’incidenza del contributo di CO2 è tanto più rilevante quanto maggiori sono le dimensioni dell’impianto. Dobbiamo, inoltre ricordare che il bilanciamento della CO2 avviene in due luoghi diversi. Per restare solamente alle emissioni equivalenti, va ricordato che oggi che una crescita di questo settore può avvenire attraverso l’importazione di biomasse dai mercati internazionali.
La situazione attuale deve portarci ad una profonda riflessione sul nostro presente. E deve spingerci ad una complessiva ridefinizione del concetto di consumo alimentare, al fine di superare l’egemonia “mercatistica” della produzione alimentare. La velocità di questi cambiamenti e l’incredibile matassa degli squilibri e delle contraddizioni appena elencate richiedono un’azione ampia e sistemica sotto il profilo culturale e filosofico una longlife learning come una sorta di policy di governo delle nostre società con lo scopo di guidare il nostro comportamento e indirizzare le scelte delle nostre società.
gen – feb 2014
Docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’ateneo di Palermo, dove insegna anche Ecologia; dirige il Master in COMUNICAZIONE, EDUCAZIONE ED INTERPRETAZIONE AMBIENTALE, la SUMMER
SCHOOL in MIGRANTS HUMAN RIGHTS AND DEMOCRACY e la WINTER SCHOOL PLANNING AND ENVIRONMENTAL MENAGEMENT.
Svolge l’attività di progettazione e pianificazione ambientale e dei beni culturali. Presidente in Italia del Comitato Scientifico UNESCO-DESS ed è direttore della Fondazione Patrimonio UNESCO della Sicilia. Tra le ultime pubblicazioni: Parole, simboli e miti della natura, 2012; Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale, 2012; Il mitico ponte sullo stretto di Messina, 2011; Consumo critico, alimentazione e comunicazione, 2011.
tema nuovi approcci all’educazione ambientale
Bibliografia
..Clarke R., J. King J. (2008), Atlante
dell’acqua, Milano, Legenda.
..FAO (2006), La zootecnia pone una grave minaccia sull’ambiente, Nota stampa,
..Millstone E., Lang T. (2008), Atlante dell’alimentazione, Milano, Legenda.
..Charvet J. P., (2004), Nutrite il pianeta, NewMediAround, Genova.